24 Giugno – La notte di San Giovanni in Romagna nei ricordi d’infanzia di mia mamma, Angela Pupa Ceccarelli
San Giovanni. E’ un giorno in cui, da secoli, religione e superstizione si intrecciano, in particolar modo nella notte precedente la festa, e rendono più affascinante la cultura popolare.
E’ la notte in cui le streghe si radunano per compiere i loro sortilegi e i loro incantesimi. E’ la notte in cui si ripetono riti magici e si fanno rivivere vecchie tradizioni, per allontanare la brutta sorte ed ottenere salute e fortuna. Poiché cade poco dopo il solstizio d’estate, sembra che, in questa notte, le virtù delle piante siano più forti. E’ questo il motivo per cui prima dell’alba, ancora bagnati dalla rugiada, si raccoglievano fiori, foglie, bacche, lavanda e tante altre piante. Si pensava che queste avessero il compito di allontanare le negatività. Venivano usate, inoltre, per preparare pozioni e intrugli, che servivano per ottenere la guarigione da malattie, la bellezza, l’amore, la fortuna, ma anche per scacciare la mala sorte, il malocchio o creare situazioni magiche.
Ricordi
Anche nella mia famiglia si vivevano alcune tradizioni. La nonna, da vera romagnola, già qualche giorno prima del 24 giugno, prenotava dai contadini del mercatino un mazzo di agli che sarebbero stati raccolti nella notte magica di San Giovanni, che, oltre ad allontanare eventuali malefici, sono simboli di abbondanza. Anche un bel mazzo di lavanda, raccolto in questa notte magica, non doveva mancare per fare poi tanti piccoli mazzi da appendere negli armadi o da mettere nei cassetti, per profumare la biancheria, per combattere le tarme e proteggerci dai malefici. Anche noi bambini avevamo un rito legato alle tradizioni. Io ricordo sempre con piacere l’alba del giorno di San Giovanni. La sveglia era alle quattro e forse anche prima. Nel cielo brillavano ancora le stelle, quando io e i miei fratelli Cicci e Mario a fatica ci alzavamo e vestivamo in fretta e, senza lavarci, ancora addormentati (ci avrebbe pensato l’aria fresca del mattino a svegliarci), uscivamo da casa per l’avventura. Accompagnati dalla zia Mina e qualche volta anche dalla nostra mamma, ci avviavamo verso il Macanno (oggi zona residenziale di Cattolica), che allora era solo campagna con qualche casolare in mezzo ai campi. In lontanaza si sentiva l’abbaiare di qualche cane, mentre noi, guardinghi, saltando un fosso e calpestando ortiche e altre piante spinose, entravamo nel campo mietuto, dove dispoersi qua e là, c’erano ancora biondi covoni di grano. Qui cominciava il nostro compito: spigolare.
La “manna”
Io ero la più piccola e mi muovevo lentamente, perché le stoppie mi pungevano, mentre i miei fratelli, per dimostrare che loro erano più bravi, invece di spigolare, nonostante il borbottio della zia Mina, rubavano spighe dai covoni. Racimolate un bel numero di spighe, saltando di nuovo il fosso, tornavamo a casa a portare le spighe alla nonna, che avrebbe preparato per noi e per gli zii, la “manna”: 2 mazzette di spighe (1 di 33 spighe in onore di Gesù e 1 di 24 spighe in onore di San Giovanni) legati con fettuccia rossa. Anche i due mazzi venivano legato tra di loro con fettuccia rossa, contro il malocchio, anche se la nonna diceva di non credere a certe cose.
La manna si appendeva nelle cucine, come talismano di buon augurio, di prosperità e protezione contro le sventure.
Dalla campagna al mare
Dopo aver consegnato le spighe alla nonna, uscivamo in fretta di nuovo, per continuare la parte più divertente dell’avventura. Sempre sotto l’occhio vigile della zia Mina, a passo svelto, perché dovevamo arrivare prima della levata del sole, giungevamo sulla spiaggia. Nella mia memoria, si susseguono, ancora nitide, le immagini: il cielo comincia a schiarire, la spiaggia quasi deserta, il mare scuro, tranquillo luccica, in lontananza qualche barca da pesca. La zia ci invita e ci aiuta a bagnarci gli occhi con l’acqua del mare e ad aspirarla per il naso, così saremo protetti da malanni delle vie respiratorie per tutto l’anno. E quando il cielo comincia a tingersi di rosso e noi abbiamo assolto i nostri doveri legati alla tradizione, finalmente siamo liberi. Liberi di spogliarci, nonostante l’aria fresca del mattino, di correre sulla spiaggia, di sguazzare strillando nell’acqua, i miei fratelli liberi di spruzzarmi acqua e io che cerco riparo dalla zia Mina e poi…i calcinelli!
Facciamo a gara chi ne trova di più (alla mattina presto, allora, sulla riva se ne trovavano) e li mettiamo nei nostri secchielli.
Ricordo che stanchi, ma contenti, saltellando, torniamo a casa e portiamo i calcinelli (telline) alla nonna, che con il nostro pescato ci avrebbe preparato i tagliolini per pranzo: tradizione che si sarebbe ripetuta per anni.
Dopo tanto tempo, come ricercare l’infanzia, ancora oggi, qualche volta, vado a raccogliere il grano per la manna, nei campi sulla strada che da Colombarone porta alla strada Panoramica. I campi del Macanno non ci sono più. Poi proseguo per il mare della Vallugola; ma dentro di me c’è una grande malinconia: sono rimasta sola a ripetere quegli antichi e cari riti di quando ero bambina.
scritto da Angela Pupa Ceccarelli